Erano anni che
Mario Costantini, un pescatore di Pescara, cercava di potersi
imbarcare sulle navi della Genepesca. Dico di Pescara, perché
nonostante risiedesse da diversi anni a Giulianova, dove si era
sposato, non era riuscito a perdere il suo accento pescarese.
Mario sapeva di essere un bravo pescatore, ma con quattro figli in
tenera età da tirar su, era veramente difficile poter andare avanti
con la misera paga che riusciva a racimolare sui pescherecci locali.
Le aveva provate tutte per potersi imbarcare sulle navi della
Genepesca. Neanche le raccomandazioni avevano sortito effetto. Si
era anche presentato due tre volte a Calambrone, davanti a quei
maledetti cancelli nella speranza di poterli varcare, ma era sempre
tornato a casa più povero e con più problemi di prima. Aveva perciò
smesso di cercare quell'imbarco e si era dedicato anima e corpo al
suo lavoro. Quando tornava dalla pesca andava a vendere il pesce,
cercava in tutti i modi di guadagnare qualche soldo in più. Non
stava mai fermo. L’importante per lui era non veder piangere i suoi
bimbi per il freddo o per la fame. Accadeva anche questo nelle
famiglie dei pescatori negli anni dell'immediato dopoguerra. Poi,
come si dice, a volte può capitare un colpo di fortuna.
Quell'estate del 1947, a fianco alla casa di Mario, venne a
villeggiare una famiglia di Livorno. Persone molto a modo, con un
bambino d'una decina d'anni dall'aspetto smunto e malaticcio. Il
bambino rifiutava il cibo, i genitori avevano consultato i più
illustri professori, ma nessuno aveva saputo diagnosticare che
malattia avesse. Un bel giorno, di ritorno dal mare, il bambino si
presentò a casa di Mario durante l'ora di pranzo; silenzioso e
vergognoso si affacciò all'uscio e restò fermo a guardarli mangiare.
La Moglie di Mario gli
sorrise, lo prese per mano e lo fece accomodare a tavola. Gli diede
un piatto e una forchetta, tolse dal suo piatto e da quello di Mario
alcune forchettate di maccheroni fumanti e li servì al ragazzo.
Sorridendogli allegramente gli scompigliò i capelli biondi e gli
disse: "Mangia, che mi sembri un fiorellino appassito, tieni, prendi
anche questo pezzo di pane." Il bambino, senza farselo ripetere
iniziò a mangiare. Ridendo, Mario disse alla moglie:" Magari i
genitori avranno tanti soldi, ma come cucini tu non ci sono soldi
che tengano". Stavano ancora ridendo quando udirono la mamma del
bambino che preoccupata chiamava il figlio. Vera si affacciò alla
porta e disse alla signora che il bimbo era in casa loro e stava
mangiando due maccheroni con un po' di pesce.
La signora si avvicinò
all'uscio e Vera gli fece cenno d'entrare. Sorridente e un po'
vergognosa la signora chiese scusa per il bambino, ma quando vide
suo figlio mangiare con gusto corse fuori e chiamo il marito: "Vieni
Alfredo, vieni a vedere Alessio come mangia:' Il marito accorse e,
nel vedere suo figlio mangiare con gusto senza che qualcuno a forza
lo imboccasse per nutrirlo, abbracciò quasi commosso la moglie.
Quell'estate a casa di
Mario non mancò mai il cibo, il professore e la signora, come li
chiamavano Vera e Mario, vollero che Vera cucinasse per loro. Il
professore era preside in un liceo di Livorno e sua moglie insegnava
lettere e filosofia in un altro liceo, sempre a Livorno. Restarono a
Giulianova fino alla fine di settembre e partirono con la promessa
di far imbarcare Mario sui pescherecci della Genepesca. Volevano che
l'intera famiglia si trasferisse a Livorno dove Vera avrebbe
cucinato per loro. A tale scopo, avrebbero fatto approntare un'ala
della loro grande casa per ospitare la famiglia di Mario. Come
promesso verso la fine di gennaio Mario ricevette un telegramma da
Livorno e finalmente riuscì a varcare i cancelli che gli erano stati
preclusi per tanti anni.
Quel giorno di marzo
del 1948, con una maretta al mascone di dritta, tra un
monotono rollio e un altrettanto monotono beccheggio,
il Genepesca I continuava la pesca tra le acque del mare del
Labrador.
Un cielo plumbeo da
vari giorni non aveva permesso la vista del sole, i marinai
imperterriti continuavano il loro lavoro. La coperta era ancora
piena di merluzzi quando il comandante diede ordine di salpare di
nuovo la rete. La squadra dei marinai ormai giunta alla fine del
proprio turno di lavoro, era stanca. Dopo aver finito le manovre di
salpa e calate andati a riposare. Ributtarono la rete in mare, il
comandante segnalò alla sala macchina avanti tutta. Quando i
divergenti della rete andarono in forza, a quello di poppa restò
impigliato un cavo di manovra chiamato maglietta. Capitava, a volte,
e Mario sapeva come fare per districare il divergente. Quel giorno,
forse per la fretta di finire la manovra e andare a dormire, invece
di aiutarsi con una gaffa, per non perdere altro tempo, il
marinaio salì sul divergente. Mentre tentava di sganciare il cavo,
un colpo di mare sollevò il divergente, Mario perse l’equilibrio e
finì in acqua: “Uomo in mare, uomo in mare!” urlarono in tre o
quattro. Il comandante dall’aletta di dritta urlò all’allievo
ufficiale: “Tutta la barra a dritta” e si precipitò ad aiutarlo a
girare il timone.
Pronti a prora, e
lungo la fiancata di dritta, i marinai con le cime in mano e i
salvagente, attendevano che la nave si avvicinasse al marinaio che
si dibatteva nelle acque gelide. Quando ormai erano quasi a tiro di
cima, soprattutto quelli che stavano a prora, videro il marinaio
smettere di dibattersi e, senza alcuna ambascia, colare a picco
ingoiato dall’oceano. Solo il suo cappello di lana rimase a galla ad
indicare il posto dove era affondato. Forse Mario era riuscito a
togliersi gli stivaloni e forse si era tolto anche l’incerata, forse
avrebbe anche potuto salvarsi se le acque non fossero state così
gelide. Forse... Continuarono a calare la rete in quella zona nella
speranza di recuperare il corpo, ma il mare non restituì nulla.
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