NAUFRAGIO DEL
CARGO “POTHO” TRA GLI SCOGLI DELLE "DUE SORELLE”
Scritto curato da Bruno Bambozzi dalla viva voce del protagonista
Cesare Barbadoro nel 1996
da: www.sirolo.it
Durante la notte del 14 marzo del 1962, un terribile fortunale con
vento impetuoso da Greco e Tramontana, che soffiava alla velocità
oraria di oltre 100 Km e con mare forza 8, un cargo libanese di
circa 8.000 tonnellate, pieno di legnami e con a bordo 21 marinai di
origine greca, dopo aver perso il controllo delle macchine, fu
spinto a riva dalla corrente, sino a schiantarsi contro gli scogli
delle "Due Sorelle".
Nel pieno
della notte, urla, lamenti, frastuoni di lamiere e legnami,
svegliarono mio fratello, Raimondo, guardiano notturno della cava di
pietra sottomonte di Cesare Davanzali. Nell'oscurità Raimondo non
riuscì a rendersi conto di quanto stava accadendo. Attese che si
facesse giorno, alle prime luci, dinanzi ai suoi occhi si presentò
uno spettacolo terrificante. Una nave da trasporto, piena di
tavolame, si era incagliata tra gli scogli delle "Due Sorelle",
squarciandosi in due tronconi. Parte degli uomini a bordo era
rimasta nella torre di comando, parte allo scoperto a prua.
Raimondo,
invalido di guerra, date le sue precarie condizioni, non era in
grado di portare loro alcun aiuto. Esitò per un attimo sul da farsi,
poi in fretta, zoppicando, sotto una pioggia incessante, risalì per
il Passo della Croce, oggi conosciuto come "Passo del Lupo", che
porta dalla spiaggia delle Velare alla sommità del monte.
Verso le otto
del mattino, esausto, giunse a casa del fratello Cesare che informò
dell'accaduto. Cesare, senza neppure attendere che qualcuno
l'accompagnasse, velocemente si incamminò verso il luogo del
disastro; poco dopo lo seguirono i nipoti Fernando e Franco.
Nel frattempo le condizioni erano peggiorate; nevicava a dirotto.
Giunto alla cava vide, stretti l'uno all'altro, tre uomini rifugiati
sotto un grottino. Si avviò verso di loro, erano semi assiderati,
negli occhi si intravvedevano segni di terrore e spavento, ma anche
di speranza; fu una scena sconvolgente. Cesare li invitò a seguirlo
nel piccolo rifugio della cava, accese subito il fuoco in una stufa
di ferro, usando del carbone, che grazie a Dio c'era in abbondanza e
li fece riscaldare mentre asciugavano quei brandelli degli abiti che
avevano ancora indosso. "Fuori", mi disse Cesare, rivivendo
quell'indescrivibile spettacolo, "dove mi giravo era un finimondo,
le onde erano alte 4 o 5 metri, il vento tagliava la faccia, la
neve, insolita in quel periodo, cadeva fitta a grandi fiocchi, il
cargo si stava disgregando e il tavolame, trasportato dalle onde
come fuscelli, aveva invaso tutta la spiaggia; i marinai che erano
rimasti allo scoperto nel troncone di prua, a squarcia gola
chiedevano aiuto, mentre la torre di comando, staccatasi, si
inclinava sempre più sul mare". Verso le ore 10, la torre di comando
si spezzò; il comandante e gli altri marinai, che lì erano
rifugiati, in pochi secondi, scomparvero tra il tavolame e l'impeto
delle onde; Cesare riuscì a vederne uno, il marconista, aveva il
corpo stretto tra alcune palanche, di tanto in tanto ne scorgeva la
testa, stava per essere strangolato, ancora qualche attimo di attesa
e sarebbe stata la fine. Con indescrivibile coraggio, rischiando la
propria vita, prese un'ascia, riuscì a spezzare il tavolame che
stava soffocando il marconista, sino a liberarlo e tirarlo a terra
con l'aiuto dei suoi nipoti e dei marinai che si erano salvati.
Il comandante della nave e gli altri otto marinai che stavano sul
ponte invece scomparvero tra le onde. Per Cesare e i suoi nipoti
furono attimi di disperazione, avevano bisogno di altri uomini che
li aiutassero. Non rimaneva altro da fare che risalire il monte e
chiedere l'intervento dei Carabinieri, delle Guardie di Finanza e di
qualche volontario.
La risalita
era divenuta difficile e pericolosa per la caduta della neve, che in
alcuni punti aveva raggiunto i 50 centimetri. Cesare lasciò i nipoti
nel rifugio con i marinai ed intraprese il cammino da solo. Arrivato
a casa, completamente bagnato e sfinito per la dura e pericolosa
marcia sulla neve, fece avvertire dai suoi le autorità e quanti
avessero potuto aiutarlo. Purtroppo, dato il pessimo tempo che
imperversava e la bufera di neve che non cessava né finanzieri né
carabinieri, né volontari nel pomeriggio si avventurarono a prestare
soccorso a chi stava tra la vita e la morte. Per l'impraticabilità
del mare burrascoso e delle strade innevate a tratti inaccessibili,
anche gli aiuti chiesti alla Questura, alla Capitaneria di porto di
Ancona ed al Comando dei Carabinieri di Osimo non furono possibili
per affrontare quell'imprevedibile emergenza. Solo Cesare dopo avere
preso tutto ciò che aveva in casa, pane, salsicce ed un bottiglione
di caffè, munitosi di una pala indispensabile per la discesa,
ritornò alla cava da coloro che lo attendevano. Erano circa le 15,
quando arrivò al rifugio. Il vento per fortuna cominciava a
bonazzare. All'imbrunire, approfittando della calma del mare che
segue o precede due onde forti, i sette marinai che erano rimasti a
bordo nel troncone di prua della nave incagliata a circa 12 metri
dalla riva, si buttarono in acqua rischiando il tutto per tutto tra
i micidiali scogli.
I più erano
uomini forti, che conoscevano le insidie del mare, di fronte al
quale non cedettero ma lottarono tenacemente fino a raggiungere a
nuoto la riva dove Cesare e i suoi nipoti li attendevano per
aiutarli a venire fuori dalle acque gelide e a risalire la scoscesa
ed alta battigia sino alla spiaggia sicura. Solo il macchinista di
bordo, uomo anziano e pesante, che si era buttato per ultimo dai
resti della nave, fu travolto dal mare verso il costone pietroso
della spiaggia. Cesare immediatamente avvertì la gravità del
pericolo e si precipitò verso lo sfortunato. Approfittando di
un'onda favorevole e con tutta la forza che disponeva riuscì a
tirarlo fuori da quelle acque infernali.
Per metterlo
al sicuro, ricorse all'aiuto dei nipoti e di alcuni marinai.
Purtroppo il povero macchinista s'era ferito in più parti del corpo
e non era in condizione di muoversi. Con cura fu portato dentro il
rifugio e posto sulla brandina del guardiano notturno della cava.
Gli prestarono le prime cure con quanto avevano a disposizione. Il
salvataggio del macchinista ha qualcosa di miracoloso. Cesare ancora
oggi come allora, ricorda tutti i particolari di quella storia
indimenticabile e continuando il suo racconto mi precisò: "Per tutta
la notte rimasi nel rifugio insieme ai nipoti ed ai naufraghi. Fu
una notte lunghissima, piena di racconti e di attese nella speranza
di vedere ancora qualche altro scampato uscire fuori dalle onde".
Anche se con difficoltà riuscivano a farsi capire; un pò di italiano
lo parlavano tutti. Continuamente chiedevano della sorte del loro
comandante e degli altri uomini rimasti sul ponte di comando.
Purtroppo il loro destino era stato segnato. Le lamiere e l'immensa
massa di tavolame galleggiante li aveva stretti in una morsa dalle
proporzioni gigantesche senza possibilità di scampo, trasportandoli
poi a notevoli distanze. Di ora in ora per mancanza di viveri ed
indumenti, le sofferenze degli scampati si accrescevano sempre più;
con preoccupazione si attendevano gli aiuti.
Sembrava che
l'alba tardasse a venire ed il tempo non passava mai; poi nelle
prime ore del giorno si udirono delle voci. Erano quasi le sette del
mattino quando giunsero i soccorritori; con quasi un giorno di
ritardo, volle precisarmi Cesare.
Erano in tutto
15 volontari, per la massima parte cavatori di pietra, oltre al vice
brigadiere dell'arma dei carabinieri: Alfredo Cavaliere. Dopo un pò
giungeva anche Mario Breccia, anch'egli operaio della ditta
Davanzali, per dare il cambio a Cesare nell'assistenza del
macchinista gravemente ferito.
L'incontro tra
gli scampati, irriconoscibili per le sofferenze e per lo stato in
cui erano ridotti, ed i soccorritori, fu commovente; nel silenzio la
forza dell'amore umano ben presto li fece fraternizzare gli uni agli
altri. All'appello erano presenti solo undici marinai come venne poi
documentato dal fonogramma che il vice brigadiere Alfredo Cavaliere
inviò alla Prefettura di Ancona ed alla Tenenza dei Carabinieri di
Ancona. In fretta, fatti vestire alla meglio i seminudi, rifocillati
gli sfiniti dalla fame, con quel poco che i soccorritori
disponevano, fu organizzata la risalita del monte, per il ripido e
pericoloso passo.
Distese alcune
funi, i naufraghi alternati dai volontari furono fatti aggrappare
alle stesse per evitare scivolamenti e cadute. Dopo qualche minuto
di sosta tutta la squadra riprende il cammino faticoso;
difficilissimo in alcuni tratti, per il manto nevoso che aveva
oltrepassato i 50 centimetri, arrivati presso l'abitazione di
Stacchiotti ricevettero indumenti da indossare nonché bevande e cibo
per ristorarsi. Dopo più di un'ora i marinai e i volontari giunsero
a Sirolo. Nel pomeriggio la Capitaneria di Porto di Ancona, inviò
una motovedetta alle Velare per provvedere al trasporto all'ospedale
del pesante macchinista ferito che giaceva nel rifugio.
Nello stesso giorno, dalla Marina Militare, furono intraprese a
largo raggio le ricerche in mare dei dieci dispersi, ma purtroppo
non diedero alcun risultato. Dopo tre giorni dall'ex Sindaco di
Sirolo, Alberto Volpini, fu recuperato il corpo di un disperso, tra
gli scogli in prossimità della Grotta Urbani. Nei giorni successivi,
altri due corpi, trasportati dalla corrente, furono trovati lungo la
costa tra Sirolo e Numana ed uno addirittura in prossimità della
spiaggia di Ortona. Con questa ultima straziante descrizione Cesare
Barbadoro concluse il suo racconto ed a testimonianza di quanto
detto mi consegnò una copia dell'attestato di benemerenza che gli
conferiva la medaglia di bronzo al valore civile.

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