Il Vascello dei fantasmi
L’ultimo colpo di scena, a nove mesi
dalla scomparsa della nave: i marinai riconosciuti in una fotografia
dalle famiglie non possono essere loro. E allora?
Sono seduto in un discreto
salotto dalle parti di Campo Sant’Angelo, bevo il vermut che mi
offrono due signore, sul tavolo sono sparse alcune fotografie. Le
due signore puntano il dito su un uomo delle fotografie e dicono:
“Questo è mio marito”, e “questo è mio fratello”. C’è anche una
terza signora, venuta a parlare col giornalista, la quale punta il
dito su un secondo uomo della fotografia e dice: “Questo è mio
figlio”. Ma c’è una probabilità su un milione che i due uomini siano
marito e fratello, e il figlio di queste tre signore. Queste tre
signore quasi sicuramente si sbagliano. E invece si arrabbiano:
“Come facciamo a non riconoscere i nostri cari, che sono scomparsi
da appena nove mesi!”. Ecco: è l’ultimo atto del più incredibile
“giallo” marinaro di questo secolo. E bisogna che ve lo riferisca da
capo, altrimenti, perdendo una sola battuta, finiremmo per non
capirci più niente.
Il 16 febbraio scorso parte
da Ravenna una nave di 4.300 tonnellate che si chiama Hedia. È una
vecchia barca svedese del 1919, rimessa in sesto più volte:
l’ultima, proprio prima di iniziare il nuovo viaggio: una ventina di
giorni in un cantiere veneziano. Una vecchia, buona, onesta barca.
Una volta si chiamava Milly, poi Generous, adesso
Hedia, e nonostante sia italiana (equipaggio italiano, porti,
cantieri, commerci italiani) appartiene ufficialmente alla Compagnia
Naviera General S. A. di Panama e batte bandiera non già panamense
bensì liberiana (Africaoccidentale). Il solito pastrocchio delle
bandiere ombra, per eludere il fisco e conseguire altri vantaggi nei
contratti con l’equipaggio. A Venezia parlo con marinai già a suo
tempo imbarcati sulla Hedia, parlo con sindacalisti della “Gente di
mare”, con gente di cantiere: la voce unanime indica quale vero
armatore, o almeno quale principale caratista, il capitano Giuseppe
Patella, un barese che vive a Venezia da molti anni. Vado a trovare
il capitano Patella. Un uomo robusto, diffidente. “È lei l’armatore
della Hedia?”, gli chiedo. “Ma nemmeno per sogno”, salta su, “io
sono soltanto l’agente della compagnia di Panama”. E dopo avermi
spiegato che la Hedia è affondata perché c’era mare a forza 14, e
questo per un capitano è un po’ curioso perché la massima forza è
10, mi consiglia di andare a chiedere notizie al suo avvocato.
Così la
Milly-Generous-Hedia, svedese-italo-liberiana-panamense, salpa da
Ravenna carica di concimi chimici, diretta in Spagna. L’equipaggio è
di diciannove italiani e un marinaio di Cardiff. Tutto bene fino a
Tarragona e poi Burriana. Da Burriana la Hedia riparte vuota (o con
misteriose cassette? ) il 5 marzo diretta a Casablanca. La faccenda
delle cassette è un borbottio che circola ancora adesso, ma
stabilire chi l’abbia messa in giro è ormai impossibile: nessuno
conferma, nessuno smentisce. I1 nostro ministero degli Affari
Esteri, in un esposto ufficiale, a un certo punto scrive così: “Non
si può escludere che la nave abbia imbarcato in Spagna o in Marocco
delle armi destinate a qualcuna delle parti contendenti in Algeria (FLN
od OAS)”. A Venezia c’è chi mi dice: “Ma no, lei sa benissimo che
tutti gli ufficiali dei cargo, un po’ di contrabbando lo fanno
sempre, per arrotondare. Ma sono sigarette, whisky, mica armi”.
Armi o whisky, la Hedia
tocca Casablanca, carica quattromila tonnellate di fosfati da
portare a Porto Marghera senza più scali. Ma a Casablanca, come nei
film, comincia il mistero. Nessun parente dei marinai e degli
ufficiali riceverà mai posta da Casablanca, nemmeno una cartolina.
Per gli ufficiali si può anche capire: per loro è routine, ma
nell’equipaggio ci sono ragazzi al primo imbarco; possibile che
nemmeno uno resista alla tentazione di farsi vivo dalla favolosa
Casablanca? L’ultima lettera dalla Hedia,
scritta l’8 marzo in navigazione tra Burriana e il Marocco, e
col timbro di Casablanca, è dell’ufficiale in seconda Elio
Dell’Andrea, indirizzata a un suo amico veneziano, Oliviero Buti,
comandante di marina. Il Dell’Andrea, che ha venticinque anni, deve
riconoscenza al Buti perché costui, amico del comandante Patella
(l’agente o caratista della Hedia), gli ha procurato l’imbarco sulla
nave. Il Buti telefona alla madre del Dell’Andrea e le legge una
parte della lettera. La madre, dopo la tragedia, chiederà
ripetutamente di vedere questa lettera (l’ultimo scritto del suo
unico figliolo, e lei è vedova), ma il Buti si rifiuterà, e anzi
rifiuterà anche ad altri di mostrarla.
Ora io sono davanti alla
signora Anna Dell’Andrea, appunto la madre che vorrebbe vedere la
lettera del figlio, e le chiedo che cosa il Buti le lesse per
telefono. La signora ricorda il brano a memoria, parola per parola:
“Non ho mai visto il comandante d’umore così nero, specie in questo
momento che stiamo facendo il carico. Quando arrivo a Venezia questo
viaggio non lo faccio più”. Io ci trovo una contraddizione: come
faceva, il suo figliolo, a dire “stiamo facendo il carico” se era in
navigazione? La signora non sa, mi ripete la frase scandendo
macchinalmente le parole.
I tempi stringono, la
tragedia è vicina. La Hedia salpa da Casablanca il 10 marzo, passa
Gibilterra, cammina lungo la costa algerina. I1 14 marzo l’agente o
caratista Patella, a Venezia, riceve un cablo. Me ne viene mostrata
una copia fotostatica: “1.000 Galita 6512 n807 persistendo passeremo
sud Sicilia Hedia”. Traduzione: ore 10, posizione La Galita
(un’isoletta davanti alle coste tunisine), 65, numero giri motore
(normale), 12 tonnellate di consumo carburante, mare forza 8 da
nord, velocità navigazione 7 nodi; se la mareggiata da tramontana
persisterà passeremo sottovento, la firma.
Mare forza 8 significa
burrasca molto grave, con onde a spigolo vivo, nel Mediterraneo, di
cinque-sei metri. Altre navi, nel Canale di Sicilia, segnalano il
guaio, ma tutte resistono: soltanto la Hedia sparisce. Giù a picco?
Non si sa. Quel cablo è l’ultimo messaggio arrivato. Da rilevare che
la moglie del comandante Federico Agostinelli, a Fano,
possiede una radio ricevente sintonizzata sulla medesima onda della
trasmittente di bordo della Hedia: ogni giorno, con i due figli, è
solita ascoltare a una certa ora notizie del marito. Ma trascorre il
giorno 14, e poi il 15, il 16 e il 17 e il 18: niente. Telefona
allora al capitano Patella, il quale dice di non preoccuparsi:
nessuna nuova, buona nuova; la nave starà risalendo l’Adriatico. Il
giorno 19 si trovano radunati sul molo di Venezia numerosi familiari
degli ufficiali e dei marinai, spiano inutilmente l’orizzonte. Al 20
è dato l’allarme, si muovono i consoli liberiani a Venezia e a
Palermo (italiani, naturalmente), l’ambasciata a Roma, il comando
Marisicilia di Messina, la capitaneria di Palermo, la Finanza, il
consolato inglese (per quel marinaio di Cardiff), le autorità
tunisine e la flotta USA in viaggio per quelle acque. Il Canale di
Sicilia viene percorso da mezzi navali e aerei: niente.
La gente di mare comincia a
fare due considerazioni: 1) è incredibile che una nave affondi senza
riuscire a comunicare almeno di trovarsi in difficoltà: le
radiotrasmittenti sono sempre due, e poi c’è anche il dispositivo di
SOS automatico: basta schiacciare un pulsante: 2) è incredibile che
una nave di 4.300 tonnellate affondi senza lasciare traccia:
qualcosa, a galla, ne rimane sempre, scialuppe, bidoni, tavole,
cadaveri e soprattutto nafta; la nafta, più leggera dell’acqua,
sfugge sempre verso la superficie attraverso gli sfiatatoi dei
serbatoi, e tonnellate di nafta fanno un lago di mare calmo e
verdastro largo magari due chilometri: impossibile non vederlo,
impossibile che non arrivi sulla costa insozzando miglia e miglia di
spiaggia, impossibile che non venga scorto nel Canale di Sicilia, un
budello in cui s’incrociano decine di navi e pescherecci al giorno.
Soltanto il 26 marzo viene
data notizia che il giorno 19 tre pescherecci italiani hanno trovato
nelle acque di Lampedusa due salvagente e una cintura di salvataggio
appartenenti alla Hedia, con sopra scritto il nome. La notizia non
spiega niente: una burrasca forza 8 può strappare dalla tolda ben
altro che un paio di salvagente. Non solo, ma c’è un’altra faccenda
misteriosa.
I1 22, radio Malta fa
sapere al Marisicilia di avere intercettato da radio Tunisi questa
notizia: “Capitano porto Tunisi segnala nave liberiana Hedia cessate
trasmissioni dal 21 marzo ore 10.14, sembra in difficoltà posizione
La Galita stop navi in vicinanze diano notizie”. Il mistero è già
questo: la Hedia si è dibattuta in difficoltà intorno a La Galita
dal giorno 14 al 21, senza mai essere vista da altre navi, senza
avere mai lanciato SOS? Inoltre: i salvagente sono stati trovati il
19, e la Hedia comunicava ancora il 21!
Ma con radio Tunisi
comincia il mistero internazionale; radio Tunisi, interpellata dal
nostro consolato, risponde confermando (verbalmente) il suo
dispaccio. Subito dopo lo smentisce (per iscritto): mai diffuso
cablogrammi del genere. Alla richiesta di spiegazioni, risponde con
un tenace e impenetrabile silenzio.
Segue una fase di
stanchezza. Gli unici a tenere ancora il fiato sono i parenti degli
uomini dell’equipaggio; gli altri si mettono il cuore in pace:
quante storie, è affondata e stop.
Uno dei parenti, Romeo
Cesca, padre del marconista Claudio Cesca, triestino, non si dà per
vinto. Ed ecco ciò che racconta: “Telegrafai al presidente della
Repubblica, a Fanfani, ai ministeri, a radio Tunisi, alla Rai, a
tutti: mi sentii dire parole, assicurazioni, parole. I1 27 marzo
ricevo finalmente una telefonata dal ministero della Marina
Mercantile: mi dicono che la nave sta lentamente risalendo
l’Adriatico. Matto di gioia, dopo dieci giorni, corro a Venezia e
tutto il 28 e il 29 li passo sul molo. Arrivano navi e navi, e a
ogni prua che si affaccia io muoio di speranza. La Hedia non arriva.
Ritelefono il 30 al ministero. Mi avvertono che si sono sbagliati,
che smentiscono e tanti saluti”.
La stanchezza ha ormai
preso anche i parenti, alcuni mettono il lutto. Ma Romeo Cesca no,
lui vuole sapere. Chiama un suo cugino, gli dà i soldi e lo spedisce
in Tunisia. I1 cugino parte e sta in Tunisia una settimana, parla
con tutte le autorità e persino con il comandante francese della
base di Biserta. Non cava un ragno dal buco. Chiede allora di potere
svolgere ricerche personali sulla costa, e a questo punto i tunisini
si seccano e fanno il muso duro. Ma il cugino è un tipo sveglio,
s’imbarca di notte su un peschereccio, da clandestino, e gira per le
piccole isole della costa, La Galita compresa. Niente. Allora
sbarca, noleggia una moto e si fa tutto il litorale fra Biserta e
l’Algeria camminando per le spiagge a cercare la nafta o cadaveri o
relitti qualsiasi, domanda in tutti i villaggi. Niente.
Intanto la fidanzata del
marconista Cesca si appella alla Croce Rossa. Il quotidiano tunisino
La Presse pubblica un articolo sulla questione, e dopo qualche tempo
fa gentilmente sapere alla signorina, che si chiama Gabriella
Alberti, che l’unico risultato conseguito è stato una violenta
“protesta” del ministero della Guerra francese. Stupore di chi segue
la faccenda: che c’entra il ministero della Guerra francese? Che
cosa può avere scritto di tanto grave il quotidiano tunisino? Perché
le autorità tunisine e francesi sono tanto suscettibili ogni volta
che si parla della Hedia?
Così viene fuori la storia
del siluramento. La voce prende corpo negli ambienti del nostro
ministero della Difesa marina. La Hedia sarebbe stata dirottata
dalla tempesta sulle rotte fantasma dei cargo che portano armi, e
una nave da guerra, per sbaglio o diciamo per eccesso di zelo,
l’avrebbe mandata a picco con un siluro magnetico. Molti lo dicono,
pochi ci credono. Anzitutto per una ragione tecnica: una nave
silurata sparpaglia i propri resti galleggianti per chilometri
quadrati. E poi la ragione politica: è mai possibile che una nave
francese possa commettere uno “sbaglio” di tali proporzioni? Si
ricordano casi di abbordi, con i mitra spianati, e di meticolose
perquisizioni, ma mai atti di guerra contro navi neutrali. Però,
però: il padre Cesca interpella un ufficiale di marina suo amico che
sta, pare, alla base di Taranto. Lo prega di interessarsi della
cosa. Dopo un certo tempo l’ufficiale risponde testualmente:
“L’equipaggio è salvo. Per gravi motivi di sicurezza non posso fare
il nome del luogo in cui si trova, ma è salvo!”.
Siamo a settembre, la Hedia
si è volatilizzata con tutti i suoi uomini da ormai sei mesi.
Ed è a questo punto che il
giallo si avvia alla fantascienza. Non per niente io sono qui, a
Venezia, nel salotto piccolo borghese a bere il vermut con tre e poi
quattro parenti che dicono “questo è mio fratello”, “questo è mio
figlio”, eccetera, senza che ciò possa essere vero. Ho detto: “possa
essere”, ma al mondo succedono cose così strane, chi si fida?
In settembre un quotidiano
di Venezia riceve una telefoto sui fatti d’Algeria e la pubblica.
Sono “europei” liberati dal FLN. La vedete in queste pagine in
originale. Si saprà più tardi che è stata scattata ad Algeri da un
fotografo inglese. La signora Maria Balboni, moglie del cuoco,
compra il giornale, vede la foto, ha un sussulto, chiama la cognata,
sorella del cuoco Ferdinando Balboni. Gridano insieme: “È lui!”.
Spargono la voce. Compra il giornale la signora Anna Dell’Andrea, la
madre del secondo ufficiale: “C’è anche mio figlio!”, grida a sua
volta, e indica il giovane accanto al cuoco Ferdinando. E Romeo
Cesca, padre del marconista, riconosce poco dopo il figlio, anche
lui a fianco dei primi due. Nei giorni successivi i parenti del
comandante Agostinelli e del fuochista Giuseppe Orofino, scrutando
nei dettagli la fotografia, assicurano che i loro cari potrebbero
essere questo e quello, sia pure senza la “assoluta certezza” dei
primi tre. A Chioggia, un certo Calogero Giordano guarda pure lui la
foto e nell’uomo in primo piano riconosce di colpo il suo giovane
amico Filippo Graffeo, di Sciacca, imbarcato sull’Hedia come
marinaio di coperta; manda il giornale ai parenti in Sicilia, i
parenti non hanno il minimo dubbio: sono in molti, genitori,
fratelli, cugini, e poi ci si mettono i vicini di casa; per
richiesta della società assicuratrice, firmano tutti davanti al
notaio il riconoscimento “senza possibilità di equivoci”. Il Filippo
Graffeo è infatti visibile quasi per intero, e lì, come si fa a
sbagliare? “Lei sbaglierebbe, se fosse suo fratello?” mi chiede la
signora Balboni. No, non mi sbaglierei. E invece Filippo Graffeo si
chiama Pierre Cocco, È un altro, un francese. Un sosia? I sosia
esistono. Ma allora gli altri? Possibile, tante coincidenze? Tutti
insieme nella stessa fotografia, e, a parte il Graffeo, tutti vicini
uno all’altro come si conviene ad amici? Tutti sosia? Ma non
anticipiamo. I colpi di scena non sono finiti.
Dunque, il quotidiano
“Venezia Notte” esce con la notizia esplosiva: “I familiari hanno
riconosciuto i marinai della Hedia!”. Il colpo è grosso, tutti i
giornali nazionali e numerosi stranieri riportano il fatto
clamoroso. Si muovono i deputati e fioccano tre o quattro
interrogazioni in Parlamento, si agitano associazioni marinare,
sindacati, associazioni armatoriali, e finalmente i ministeri
competenti. La United Press comunica frattanto da Parigi che la
telefoto, autenticissima, è stata fatta il 2 settembre. Ciò crea
nuove perplessità: come mai, se sono stati liberati, gli
ex-prigionieri non si sono ancora fatti vivi con il nostro
consolato, con i familiari in ansia? E poi: dai particolari delle
loro persone (abiti in ordine, orologio, basco, scarpe, zoccoli) si
può arguire che non sono stati pescati in mare ma, come osserva il
nostro ministero degli Affari Esteri in un suo esposto, “catturati
asciutti”. Dove sono andati dunque a finire? Perché non si sono
fatti riconoscere? Perché, ai giornalisti e fotografi presenti alla
loro liberazione, non hanno gridato “siamo gli italiani dell’Hedia”?
E adesso comincia
l’inedito. La società assicuratrice della Hedia, che è La Vittoria
di Milano, vuole andare fino in fondo, e vede di buon occhio
l’iniziativa di un giovane giornalista veneziano, Vitaliano Pesante.
Costui, spalleggiato dai familiari dei marinai, parte per l’Algeria,
facendosi passare per universitario in viaggio di studio. Il
giovanotto non passa giorni facili: si accorge che gli perquisiscono
di nascosto la stanza, che lo pedinano. Comincia a pescare i
giornalisti che erano presenti alla consegna dei prigionieri: gli
escludono che fra costoro vi fossero degli italiani. Con l’aiuto del
nostro console rintraccia un certo Jean Solert, che è il pied noir
primo da sinistra nella fotografia degli ex-prigionieri. Il Solert
fa meraviglia: italiani in mezzo a loro? Ma neanche per idea. I1
giornalista Pesante non molla, il Solert lo mette sulla pista del
presunto Filippo Graffeo. “Questo qua?”, dice. “Ma è Pierre Cocco,
gestiva il tal caffè qui in Algeri”. Il Pesante va a questo caffè,
va dai padroni, gli mostra la fotografia: “Conoscete qualcuno fra
questi?”. “Come no”, dice il proprietario: “eccolo qui il nostro
Cocco, lo conoscevano tutti”. Alcuni avventori guardano, annuiscono:
è lui. Il giornalista chiede dove può trovarlo. “Ma”, gli dicono,” è
partito per Marsiglia senza lasciare indirizzo”.
Vitaliano Pesante ritorna
dall’ex-prigioniero pied noir Jean Solert. “Mi sa dire”, gli chiede,
“di questo ometto col basco?”. Il Solert ci pensa, gli dice di
andare alla Maison Carré, la prigione di Algeri: “Forse là...”. Alla
Maison Carré guardano la foto, si consultano. Ma sì, non era quel
vecchietto, settantadue anni, che faceva il guardiano notturno,
arrestato perché portava la pistola? Già, sicuro, abitava nella tale
pensione. Il Pesante va alla pensione, trova una signora che abitava
nella stanza accanto, le mostra la fotografia: “Riconosce
qualcuno?”. “Ma certo”, dice lei, “eccolo qui monsieur Cefariello,
Joseph Agnello Cefariello”. “Dov’è andato?”. “Partito per Tolone”.
Vitaliano Pesante va a
Marsiglia, trova i conoscenti del proprietario del caffè di Pierre
Cocco, il quale doveva portare loro i saluti. “Conoscono lorsignori
un tale Pierre Cocco?”. “Sì, è venuto da Algeri a portarci i
saluti”. “Lo riconoscono in questa fotografia?”. “Oh sì, è questo
qui in primo piano”. E indicano colui che una decina di parenti e
vicini di casa hanno firmato dal notaio essere Filippo Graffeo.
“senza possibilità di equivoci”.
Io ho finito il vermut e
anche il caffè. “Signora Balboni”, dico, “questo ometto col basco
che si chiamerebbe Joseph Agnello Cefariello, come può essere suo
marito?”. “Sono sicura”, dice la signora Balboni: “portava sempre il
basco, e proprio in questo modo, era molto freddoloso, aveva gli
stessi occhiali, lui aveva cinquantadue anni e qui ne mostra un po’
di più, ma chissà che strapazzi ha passato”. La sorella Balboni
conferma: “È lui”. E la signora Anna Dell’Andrea tira fuori dalla
borsetta un mazzo di fotografie del figliolo: “Guardi, signore,
guardi qui se non è la identica stempiatura, la stessa ombra alla
tempia, l’orecchio, e il pollice! Oh, il mio Elio ha sempre messo in
questo modo la mano, e non vede la spallina?”. Io la vedo e non la
vedo, ma dico di sì.
Poi vengo via. E penso che
questa non è un’inchiesta. Che roba può essere? Una storia senza
senso. Un giornalista dovrebbe saper tirare le somme, indagare e
concludere, offrire la sua tesi, scegliere la congettura. Ma quale
congettura volete? La Hedia aveva sempre attraversato il Canale di
Sicilia.
In ogni modo: la società
assicuratrice ha pagato 126 milioni, la Cassa marittima ha pagato ai
parenti un quattrocento mila lire tra assegno funerario, assegno
vestiario e altre indennità, e il caso, ufficialmente, è chiuso. Sì,
sul serio: chiuso.
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