«Francesco Padre, omicidio volontario»
Esplosione provocata da un siluro Nato
TRANI — La morte dei cinque marittimi molfettesi, naufragati a
bordo del «Francesco Padre» il 4 novembre del 1994 a 20 chilometri
dalle coste montenegrine, potrebbe essere stata un omicidio volontario.
A provocarla, un siluro di sommergibili Nato, di cui era pieno
l’Adriatico in quel periodo, o una mina, di cui erano disseminati i
fondali. E’ quanto dovrà accertare la procura di Trani che una
settimana fa, 16 anni dopo, ha riaperto l’inchiesta sull’affondamento
del peschereccio molfettese e ora ipotizza l’omicidio volontario a
carico di ignoti sulla base della denuncia dei parenti di una delle
cinque vittime, per niente convinti dalle conclusioni ufficiali della
prima e unica indagine archiviata nel 1997 per «morte del reo» dal gup
Giulia Pavese: il peschereccio sarebbe affondato a causa di una
esplosione interna, provocata da un carico di armi o esplosivo
trasportati in maniera illegale dall’equipaggio, probabilmente come
«tangente» utile a ottenere il permesso di pescare nelle acque del
Montenegro.
E’ la conclusione cui giunse il pm Giancarlo Montedoro,
sulla base di una perizia del
chimico Giulio Russo Krauss dell’Università di Napoli, secondo il quale
il tipo di esplosione non era compatibile con l’attacco esterno di un
missile o con l’esplosione di una mina pescata magari dalle reti.
Insomma, il peschereccio sarebbe affondato - secondo le conclusione
ufficiali - mentre si avvicinava al Montenegro per consegnare esplosivi
in cambio del permesso a poter pescare in quelle acque, in quanto in
quella zona la profondità era di 300 metri. Ma questa spiegazione ha,
di fatto, infamato la memoria dei cinque morti (il capitano Giovanni
Pansini, il motorista Luigi De Giglio, i pescatori Saverio Gadaleta e
Francesco Zaza e il marinaio Mario De Nicolo, questi l’unico di cui sia
stato recuperato il cadavere) che, al momento dell’esplosione, stavano
quasi certamente pescando: uno dei cadaveri rimasti in fondo al mare, e
filmato successivamente da telecamere subacquee, aveva gli stivali
alti, di quelli utilizzati solo nella pesca; e in quel tratto, il mare
è profondo 240 metri e non 300, ovvero una profondità compatibile con
la pesca a strascico.
Mentre rimangono molti punti oscuri nella vicenda, come l’albero principale
del
peschereccio crivellato di fori d’arma da fuoco. E non è mai stata
indagata a fondo nemmeno l’ipotesi che il peschereccio fosse rimasto
vittima di un siluro partito da un sommergibile Nato, anche se quella
notte era in corso l’operazione «Sharp Guard».
Per questo l’ipotesi dell’esplosione avvenuta all’interno del peschereccio
viene ora messa in dubbio dal procuratore di Trani, Carlo Maria Capristo, e dal suo sostituto, Giuseppe Maralfa, che hanno affidato ai
carabinieri di Trani il compito di recuperare altra documentazione e
compiere tutti gli atti utili ad arrivare a un obiettivo essenziale: il
recupero del relitto. Ciò che non venne mai fatto all’epoca
dell’incidente, e nemmeno nel 2001 quando i parenti delle vittime
chiesero (attraverso l’avvocato Luigi Pansini) di poter riaprire
l’inchiesta sentendosi rispondere un sonoro «no» dall’allora
viceprocuratore Pasquale Drago proprio per il «mancato recupero del
relitto». In realtà, non si procederà immediatamente a ripescarlo,
anche perché l’operazione è piuttosto costosa (all’epoca dei fatti la
spesa venne quantificata in sette miliardi e mezzo di lire) ma si
opererà di nuovo con un Rov (Remotely operated vehicle, un robot che
permette a un operatore di indagare i fondali marini rimanendo in
superficie), per capire innanzitutto se il relitto sia ancora nella
posizione iniziale o se invece sia stato trasportato altrove dalla
corrente. Solo dopo questa indagine preliminare si deciderà se
procedere o meno con il recupero dei resti dell’imbarcazione. I punti
da chiarire secondo gli avvocati Francesca e Giacomo Ragno e Anna Maria
De Cosmo, che rappresentano la moglie e i due figli del motorista
Cosimo Di Giglio, sono tanti. E nell’esposto che ha permesso di far
riaprire l’inchiesta, i familiari hanno chiesto che venga ascoltato
anche l’allora ministro della Difesa, Cesare Previti, e che siano
esaminate le comunicazioni e i messaggi dello Stato Maggiore della
Marina e le operazioni militari in corso in quel tratto di mare; nonché
i piani di volo, le rotte, i tracciati radar e i rapporti dei
comandanti delle varie unità navali e aree, classificati all’epoca come
«segreti militari».