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Caduti

del mare

 

 

23 febbraio 2010

Carmen Carbonara su

Corriere del Mezzogiorno

La procura di Trani, 16 anni dopo, ha riaperto l’inchiesta

 

 

«Francesco Padre, omicidio volontario»
Esplosione provocata da un siluro Nato

 

Il peschereccio Francesco Padre colato a picco il 4 novembre 1994

TRANI — La morte dei cinque marittimi molfettesi, naufragati a bordo del «Francesco Padre» il 4 novembre del 1994 a 20 chilometri dalle coste montenegrine, potrebbe essere stata un omicidio volontario. A provocarla, un siluro di sommergibili Nato, di cui era pieno l’Adriatico in quel periodo, o una mina, di cui erano disseminati i fondali. E’ quanto dovrà accertare la procura di Trani che una settimana fa, 16 anni dopo, ha riaperto l’inchiesta sull’affondamento del peschereccio molfettese e ora ipotizza l’omicidio volontario a carico di ignoti sulla base della denuncia dei parenti di una delle cinque vittime, per niente convinti dalle conclusioni ufficiali della prima e unica indagine archiviata nel 1997 per «morte del reo» dal gup Giulia Pavese: il peschereccio sarebbe affondato a causa di una esplosione interna, provocata da un carico di armi o esplosivo trasportati in maniera illegale dall’equipaggio, probabilmente come «tangente» utile a ottenere il permesso di pescare nelle acque del Montenegro.

E’ la conclusione cui giunse il pm Giancarlo Montedoro, sulla base di una perizia del chimico Giulio Russo Krauss dell’Università di Napoli, secondo il quale il tipo di esplosione non era compatibile con l’attacco esterno di un missile o con l’esplosione di una mina pescata magari dalle reti. Insomma, il peschereccio sarebbe affondato - secondo le conclusione ufficiali - mentre si avvicinava al Montenegro per consegnare esplosivi in cambio del permesso a poter pescare in quelle acque, in quanto in quella zona la profondità era di 300 metri. Ma questa spiegazione ha, di fatto, infamato la memoria dei cinque morti (il capitano Giovanni Pansini, il motorista Luigi De Giglio, i pescatori Saverio Gadaleta e Francesco Zaza e il marinaio Mario De Nicolo, questi l’unico di cui sia stato recuperato il cadavere) che, al momento dell’esplosione, stavano quasi certamente pescando: uno dei cadaveri rimasti in fondo al mare, e filmato successivamente da telecamere subacquee, aveva gli stivali alti, di quelli utilizzati solo nella pesca; e in quel tratto, il mare è profondo 240 metri e non 300, ovvero una profondità compatibile con la pesca a strascico.

Mentre rimangono molti punti oscuri nella vicenda, come l’albero principale del peschereccio crivellato di fori d’arma da fuoco. E non è mai stata indagata a fondo nemmeno l’ipotesi che il peschereccio fosse rimasto vittima di un siluro partito da un sommergibile Nato, anche se quella notte era in corso l’operazione «Sharp Guard».

Per questo l’ipotesi dell’esplosione avvenuta all’interno del peschereccio viene ora messa in dubbio dal procuratore di Trani, Carlo Maria Capristo, e dal suo sostituto, Giuseppe Maralfa, che hanno affidato ai carabinieri di Trani il compito di recuperare altra documentazione e compiere tutti gli atti utili ad arrivare a un obiettivo essenziale: il recupero del relitto. Ciò che non venne mai fatto all’epoca dell’incidente, e nemmeno nel 2001 quando i parenti delle vittime chiesero (attraverso l’avvocato Luigi Pansini) di poter riaprire l’inchiesta sentendosi rispondere un sonoro «no» dall’allora viceprocuratore Pasquale Drago proprio per il «mancato recupero del relitto». In realtà, non si procederà immediatamente a ripescarlo, anche perché l’operazione è piuttosto costosa (all’epoca dei fatti la spesa venne quantificata in sette miliardi e mezzo di lire) ma si opererà di nuovo con un Rov (Remotely operated vehicle, un robot che permette a un operatore di indagare i fondali marini rimanendo in superficie), per capire innanzitutto se il relitto sia ancora nella posizione iniziale o se invece sia stato trasportato altrove dalla corrente. Solo dopo questa indagine preliminare si deciderà se procedere o meno con il recupero dei resti dell’imbarcazione. I punti da chiarire secondo gli avvocati Francesca e Giacomo Ragno e Anna Maria De Cosmo, che rappresentano la moglie e i due figli del motorista Cosimo Di Giglio, sono tanti. E nell’esposto che ha permesso di far riaprire l’inchiesta, i familiari hanno chiesto che venga ascoltato anche l’allora ministro della Difesa, Cesare Previti, e che siano esaminate le comunicazioni e i messaggi dello Stato Maggiore della Marina e le operazioni militari in corso in quel tratto di mare; nonché i piani di volo, le rotte, i tracciati radar e i rapporti dei comandanti delle varie unità navali e aree, classificati all’epoca come «segreti militari».

 

 

 

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